Storia architettonica

Date e curiosità sulla genesi del Verdi

L’esigenza di individuare un’area capace di accogliere un nuovo edificio teatrale in Salerno è già viva agli albori del quinto decennio dell’Ottocento.

Il 15 novembre del 1843, infatti, l’Intendente della Provincia propone due luoghi per l’erigenda costruzione:
il largo Santa Teresa, ubicato nella parte occidentale della città, e il largo della barriera fuori Portanuova, che si estende sul versante opposto.

Il dibattito sull’opportunità di optare per l’uno o per l’altro sito, i problemi connessi al finanziamento dell’opere e alle lentezze della burocrazia borbonica impediscono, per vent’anni, che l’edificio venga realizzato. L’intricata vicenda conosce il suo positivo scioglimento solo dopo la costituzione del Regno d’Italia, quando l’annosa querelle sul teatro municipale ritorna agli onori delle cronache riproponendosi, in tutta la sua urgenza, alla classe politica post-risorgimentale. Nella seduta del 15 dicembre del 1863, il Consiglio Comunale, per la ferma volontà del neo-sindaco Matteo Lucani, risolve la controversa questione, scegliendo l’area di Santa Teresa come luogo su cui dovrà sorgere l’edificio.
Il primo progetto, firmato dagli ingegneri Petrilli e De Luca nel 1844, viene sottoposto a revisione dall’architetto Antonio Genovese.

A redigere, però, quello definitivo sono Antonino D’Amora, ingegnere capo del Genio Civile di Salerno, e l’architetto Giuseppe Manichini. Ad essi sarà anche affidata la direzione dei lavori dell’opera.
L’edificio è costituito da un corpo di fabbrica lungo m. 65 e largo m. 35; presenta agli estremi corti due appendici simmetriche, corrispondenti rispettivamente alla zona d’ingresso e al retropalco. Nelle articolazioni esterne, soprattutto nel suo prospetto frontale, esso ripropone lo schema neoclassico, già sperimentato dal Piermarini per la Scala di Milano e dal Piccolini per il Massimo napoletano; la pianta interna del San Carlo è, inoltre, rispresa, ridotta ed adattata per quella del Municipale salernitana.

Il I aprile del 1864 si dà inizio ai lavori, affidati dall’appaltatore Vincenzo Fiorillo cui, nel 1867, per le accresciute difficoltà progettuali e il conseguente aggravio economico, si associano anche Bonaventura della Monica, col sostegno dei capitali, e l’impresa di Antonio Avallone, per la realizzazione della complessa opera edilizia.

Il I ottobre del 1869 il rustico viene portato a termine e si dà corso ai lavori di decorazione. Il maestro dell’immagine del teatro Municipale è Gaetano D’Agostino, pittore e decoratore di gran talento, che sceglie di farsi affiancare dalle firme più prestigiose del mondo accademico partenopeo.

Gli sono accanto: Domenico Morelli, Pasquale Di Criscito, Ignazio Perricci, Giuseppe Sciuti e una nutrita schiera di Salernitana: suo fratello antonio, il cugino Ermenegildo Caputo, Matteo Amendola e lo scultore Giovan Battista Amendola, originario di Episcopio di Sarno. Fin dal foyer, il disegno iconografico si delinea con estrema chiarezza: le immagini prescelte devono comunicare la destinazione d’uso del luogo, concepito come tempio della musica e, in particolare, della tradizione del bel canto. Al centro del peristilio è collocata la scultura di Giovan Battista Amendola raffigurante Pergolesi morente, la cui funzione simbolica è quella di introdurre lo spettatore all’interno del tempio della musica. Di esso è Signore incontrastato Gioachino Rossini che, al centro del plafond, dall’alto di una balaustra, assurge a suprema espressione della genialità musicale italiana e partenopea, avendo l’artista dominato la scena napoletane negli anni tra il 1815 e il 1822. Le muse gli fanno corona, procedendo dal bleu di Prussica del cielo e tenendosi per mano in un coreografico carosello. Sorelle minori delle superbe e leggiadre divinità di Paolo Veronese, delle fiorite e voluttuose figure di Pietro da Cortona, di quelle più lieve e aeree del Tiepolo, le muse del soffitto salernitana scandalizzano il pur coltissimo Francesco Saverio Malpica.

Questi, pur ritenendo il Di Criscito pittore di doti non comuni, in due lettere indirizzate ad un amico nel 1872, e poi pubblicate in Salerno, scrisse che nel soffitto del teatro Municipale non era riuscito ad individuare un pur lontano barlume di ispirazione artistica, essendo Rossini ritratto con una “faccia di luna piena” e le muse come “….donne grosse e grasse che dimenano natiche, gambe e braccia….” e perciò indegne di qualsiasi pudico sguardo. Incuranti di tali clamori, le nove sorelle sciorinano abbondanti grazie neo-barocche, avvolgendo, nel loro festoso roteare, l’allegoria della musicalità, in tunica bleu e candida mano all’orecchio; la melodia, effigiata la potenza musicale, la cui allusa intensità è affidata al suono di una buccina, cui dà fiato una creatura marina.

Alle spalle di Rossini si apre una sequenza di quadri ispirati alle sue opere più significative, scritte in Italia prima della partenza per Parigi: Tancredi, Armida, Otello, il Barbiere di Siviglia, Mosè in Egitto e Semiramide. Se il cielo del Di Criscito rappresenta la consacrazione della sala alle grande stagione del melodramma italiano, al sipario è affidato il compito di celebrare la storia della città, evocando un glorioso episodio del passato. Grazie alla sua personale amicizia, il D’Agostino ottiene che sia il maestro Domenico Morelli a realizzare l’opera più emblematica del teatro.

L’episodio prescelto è la Cacciata dei Saraceni da Salerno, avvenuta nell’estate del 871, quando i Salernitani, guidati dal principe Guaiferio, opposero resistenza agli invasori Amareni, capeggiati dal violento Abdila. Dalle fonti letterarie Morelli trasceglie il momento in cui i baldanzosi Saraceni, forti della loro superiorità militare, avanzano per vendicare settanta uomini delle loro schiere, uccisi dagli avversari nel corso di una fulminea incursione oltre le mura. L’alleanza di tre città campane Salerno, Benevento e Capua, illustrata nel medaglione in alto, al centro del sipario, il concorso popolare, esemplato nelle figure degli arcieri e delle donne, dipinte negli otto cammei della cornice, simboleggiano l’eroica e vittoriosa resistenza di Salerno. Ventiquattro disegni preparatori, il bozzetto definitivo, due studi di ampie dimensioni dell’episodio centrale, costituiscono l’intero iter del lavoro morelliano. Nei fatti, la trasposizione dell’opera sul telone di 122 metri quadrati è affidata a due pittori assai vicini al maestro: Giuseppe Sciuti, siciliano di Zafferana Etnea, che dipinge tutte le figure, Ignazio Perricci, architetto di Monopoli di Bari, che elabora la preziosa cornice.
Essa costituisce la vera originalità del fastoso sipario. I suoi eleganti medaglioni giallo-azzurri si equilibrano perfettamente col racconto storico, costruito sull’abile dosaggio tra grande coreografia da melodramma ed esotici tocchi orientaleggianti alla Mariano Fortuny. Capomastri, intagliatori e indoratori di collaudato mestiere affiancano il D’Agostino nella realizzazione delle decorazioni. Sui parapetti dei palchi di prima fila spiccano dei putti che reggono un medaglione; in seconda, vi sono possenti giganti neo-manieristi col corpo fiorito in calice nell’estremità inferiore; in terza, figure femminili si congiungono a disegnare un cammeo, che accoglie le effigie di un poeta, di un pittore e di un musicista.

In questi medaglioni, da destra a sinistra, rispetto a chi entra nella sala, sono raffiguranti: Vincenzo Bellini, Domenico Cimarosa, Giovan Battista Pergolesi, Carlo Goldoni, Gioachino Rossini, Gaetano Donizetti, Vittorio Alfieri, Torquato Tasso, Dante Alighieri, Michelangelo Buonarroti, Raffaello Sanzio, Giotto, Leonardo da Vinci, Andrea Sabatini, Benvenuto Cellini, Salvator Rosa e Giuseppe Verdi. Il teatro Municipale di Salerno (Teatro Giuseppe Verdi dal 1902, per delibera del Consiglio Comunale) viene inaugurato il 30 marzo del 1872 con la rappresentazione del Rigoletto di Giuseppe Verdi.